La scarcerazione di quello che era finora l’unico imputato deve far riflettere: tre anni sono stati persi per cercare la verità, tre anni sottratti alla vita di un innocente, tre anni tolti alla ricerca di giustizia per Andrea e Andrej

Non è finita con l’assoluzione di Vitaly Markiv. La ricerca delle eventuali responsabilità per la morte di Andrea Rocchelli e Andrej Mironov comincia solo ora. Il tempo perso a costruire il colpevole, a creare il mostro, l’imputato perfetto, tutto questo tempo sprecato ora lo si dovrà giustificare alle famiglie. Saranno le motivazioni a spiegare le ragioni di un’assoluzione con la formula per non aver commesso il fatto. Nel frattempo non c’è da gioire. Sollievo, certo, per l’affermazione di uno stato di diritto che la sentenza di Pavia ha fatto vacillare. Ma il vuoto lasciato da tre anni di indagini a senso unico, quel vuoto col quale ora devono confrontarsi le famiglie di Andrea e Andrej, ecco quel vuoto merita un senso. Un senso che può essere dato solo da una seria indagine. Perché qui nessuno ha mai negato che delle responsabilità possano esserci. L’ho scritto già all’indomani della morte di Andrea e Andrej, e ancora dopo, al momento dell’arresto di Markiv. Se delle responsabilità ci sono, e se quelle responsabilità devono essere cercate sulla collina di Karachun, allora è bene che la magistratura italiana vada avanti, fin dove può. E non si accontenti di dare alle famiglie un capro espiatorio con la stolta illusione di placare così il loro dolore.
I familiari di Mironov
Che si stesse perdendo tempo, la famiglia di Mironov lo ha capito subito, quando l’appello era ancora in corso. Una lettera della nipote di Andrej, Sophia Kayes, lo spiega bene: i parenti – tra la Russia e la Gran Bretagna – erano stati fuorviati. Nessuno parla italiano, gli avevano detto che un tribunale aveva ricostruito tutto, un tribunale italiano, di un Paese democratico e civile. Ci avevano creduto. E poi c’era questo documentario, con questo titolo che non andava giù a nessuno, The Wrong Place, il posto sbagliato. Andrej e Andrea non erano nel posto sbagliato, dicevano. Ma poi sono cominciati i dubbi, troppe cose non tornavano. Si sono fatti tradurre gli atti del processo di primo grado e tutto è diventato chiaro in un colpo: in Italia stavano solo perdendo tempo appresso a un capro espiatorio. Nessuno stava cercando di ricostruire le responsabilità per la morte del loro caro. È stato così che ci siamo avvicinati, e ci siamo parlati. La diffidenza è venuta via. La storia del titolo: era nato come provvisorio, con un intento completamente diverso, è stato oggetto di malintesi nella migliore delle ipotesi; strumentalizzato per attaccarci, negli altri casi. È stato insieme a Sophia che abbiamo deciso di scegliere un titolo definitivo diverso, Crossfire. Perché è lo stesso Mironov che lo dice in un video agli atti del processo: siamo finiti in mezzo a un fuoco incrociato.
Il documentario
Un anno e mezzo di ricerche, indagini sul campo, testimonianze inedite di sopravvissuti, ricostruzioni al computer, test balistici. Tutto il nostro lavoro è ora a disposizione degli inquirenti. Il documentario Crossfire ha ottenuto finora non solo il supporto della famiglia di Andrej Mironov, ma anche di importanti organizzazioni internazionali per i diritti umani e la difesa dei giornalisti, dalla Justice for Journalists Foundation, a Nessuno tocchi Caino, da Open Dialogue alla Federazione italiana diritti umani. E ha anche avuto il riconoscimento della European Federation of Journalists. Non è stato accolto però con lo stesso calore in Italia dalle organizzazioni e dalle associazioni di categoria. Il nostro non è mai stato pensato come un lavoro “contro”. Eppure c’è stato qualcuno che sin da subito ha fatto passare l’idea che fare un’inchiesta giornalistica che metteva in discussione una sentenza di primo grado equivalesse a macchiarsi di oltraggio nei confronti delle vittime e delle loro famiglie (ma abbiamo visto che per la famiglia di Mironov non è così). C’è stato qualcuno che sin dall’inizio ha cercato in ogni modo – riuscendoci in gran parte – a creare un clima di fazioni, “noi e loro”, a creare due fronti, a dividere, a polarizzare la vicenda in un banalissimo “innocentisti contro colpevolisti”. Abbiamo sempre pensato che fosse questa la più grande offesa alla memoria di Andrea e Andrej. E siamo stati tacciati di falsità per averlo detto. Giorno dopo giorno io e gli altri componenti del gruppo di lavoro – Cristiano Tinazzi, reporter esperto di zone di crisi, Olga Tokariuk, giornalista ucraina di fama internazionale e Ruben Lagattolla, documentarista con esperienza in Siria – siamo stati chiamati “detrattori italiani di Rocchelli”, è stato detto che rappresentavamo un “oltraggio alla sua famiglia”, siamo stati accostati proditoriamente a fantomatiche minacce che sarebbero arrivate a loro e ad alcuni legali di parte. Minacce con cui – ammesso che siano esistite – non abbiamo avuto mai nulla a che fare. Trovo assurdo persino doverlo dire. Eppure i nostri nomi sono stati accostati a questa infamia in titoli e articoli senza il minimo riferimento concreto. Nessuna citazione, nessun resoconto circostanziato, niente. Ma intanto i nostri nomi erano nel tritacarne.
La canea
C’è stato chi ha contribuito pesantemente a creare un clima da stadio intorno a una vicenda che meritava solo silenzio e scrupoloso lavoro sui fatti. Frange estremiste – non importa se di destra o sinistra, sono tutte uguali – si sono date da fare su blog e testate online, le stesse sulle quali si difendono dittatori sanguinari come Bashar al-Assad e Aljaksandr Lukashenka, con articoli in cui si cercava di screditare noi, non potendo screditare il nostro lavoro. Chi li paga, chi c’è dietro? erano i leitmotiv. Articoli firmati anche da estremisti attivi – secondo notizie di stampa – nel reclutamento di foreign fighter nella guerra in Donbass. Ancor più grave, questi articoli sono stati tirati fuori dal sottobosco estremista e persino legittimati da una nota associazione di giornalisti per la tutela dell’informazione. Un paradosso grave e inqualificabile. Come inqualificabile è l’articolo altamente diffamatorio pubblicato sul sito della stessa associazione in cui, già nel titolo, si accosta il nostro lavoro a fantomatiche minacce alla procura generale e si sostiene che nostro intento sarebbe stato “giustificare l’omicidio” di Andrea e Andrej. Infamie pure, lanciate nello spazio mediatico con sprezzo della deontologia e della legge, fatte rimbalzare sui social da chi dovrebbe avere a cuore la libertà d’informazione, amplificate fino a che non si autoalimentano in un circolo vizioso in cui spariscono fonti e verifiche. Il risultato non tarda ad arrivare, con minacce e insulti espliciti da profili anonimi della galassia estremista. Se aizzi i cani con la bava alla bocca, quelli prima o poi attaccano.
Andrea e Andrej
Latrati. Chiasso che ha rischiato di far finire Andrea e Andrej sullo sfondo. La speranza, ora che non c’è più l’orco da cacciare forconi in mano, è che chi deve indagare lo faccia seriamente. Per far sì che l’assoluzione di un innocente non si tramuti in un vuoto di giustizia. La sentenza pronunciata dalla corte d’assise d’appello di Milano deve essere il punto di partenza. C’è da fare tutto quello che i giudici di Pavia non hanno fatto. C’è da ricostruire gli eventi, sentendo tutti i testimoni, compresi quelli che abbiamo rintracciato noi. C’è da ricostruire il contesto, capire come funzionava il conflitto a Slaviansk in quei giorni. C’è da fare un sopralluogo – e non su Google maps – per provare a capire la dinamica, se c’era veramente uno scontro a fuoco come dice Mironov nel video o se si è trattato di fuoco unilaterale. Ci sono, insomma, delle indagini da fare, con l’idea di cercare una responsabilità e non di trovare il modo di giustificare una tesi accusatoria. Noi siamo pronti a fare la nostra parte, proprio come avrebbero fatto Andrea e Andrej.