Uno degli ultimi post che ho pubblicato sul mio profilo Facebook ha scatenato un piccolo polverone. Parlavo del referendum del 17 aprile, delle ragioni per cui io non andrò a votare e della dignità e legittimità dell’astensione.
Ma, com’era prevedibile, le questioni si sono ramificate come il delta del Danubio, e in ogni argomento e sottoargomento c’è un po’ di ragione.
Per semplicità, ricopio qui il testo del post:
Domenica faccio qualcosa per l’ambiente, vado a fare una passeggiata in montagna
Perché il referendum che si voterà in città è tutto sbagliato, a cominciare da come lo chiamiamo.
Perché le trivelle non c’entrano niente. Non riguarda le perforazioni sulla terra né quelle oltre le 12 miglia. E non riguarda le nuove trivellazioni entro le 12 miglia, perché sono già vietate dalla legge. Quando vi dicono che negli altri Paesi… be’, sono fregnacce.
Perché se si raggiunge il quorum e vincono i sì, l’ultima delle 92 piattaforme attualmente attive sarà smantellata nel 2034.
Perché quelle 92 piattaforme oggi in funzione entro le 12 miglia estraggono principalmente gas metano, quasi il 3% del fabbisogno nazionale, e appena lo 0,8% del fabbisogno nazionale di petrolio.
Perché se quelle piattaforme devono essere smantellate alla fine delle concessioni, quel gas e petrolio sarà lasciato lì dov’è. Bisognerà allora aumentare di quel 3% le importazioni di gas – anche dalla Russia – e di quello 0,8% di petrolio. Anche da chi trivella altrove nel Mediterraneo, con meno regole e meno garanzie.
Perché l’unico incidente della storia italiana è avvenuto nel 1965, durante l’installazione della piattaforma Paguro dell’Eni al largo di Ravenna. E l’installazione e la dismissione sono i momenti più critici nella vita delle piattaforme, non l’attività di estrazione.
Perché questo è diventato un referendum contro il governo, contro le lobby, contro i petrolieri, ma non si capisce bene a favore di cosa. Non certo dell’ambiente. Perché se vogliamo fare qualcosa per l’ambiente, allora, la domenica invece di andare al centro commerciale in macchina, facciamoci una pedalata. Andiamo a lavoro con i mezzi pubblici. Fanno schifo? E chi ha detto che per difendere l’ambiente non si debbano fare sacrifici?
Perché chiudere i pozzi già esistenti non c’entra una mazza con le rinnovabili. Perché se vogliamo dare una spinta all’uso delle fonti rinnovabili possiamo fare altre cose ben più concrete. Per esempio, chi di noi sceglie il fornitore dell’energia elettrica in base alla composizione delle fonti di produzione, anche se costa di più? (inciso, l’Italia è uno dei Paesi europei con la maggior quota di produzione energetica da fonti rinnovabili, e ha già raggiunto l’obiettivo 2020 del 17% fissato dall’Ue. In anticipo.)
Perché giocare a fare gli ambientalisti, mettere una crocetta sulla scheda domenica, lavarsi la coscienza e tornare immediatamente alle pessime e inquinanti abitudini è troppo facile. Meglio una passeggiata in montagna.
Rimando tutti ai commenti al post, che stanno arricchendo la discussione. Qui ho voglia solo di aggiungere qualcosa più in linea con il tema del blog. TAP sì, TAP no. Raddoppio del Nord Stream e abbandono del South Stream, rigassificatori e differenziazione delle fonti di approvvigionamento del gas. E, infine, dipendenza dal gas russo.
Delle 93 piattaforme interessate dal referendum, solo 11 estraggono (anche) petrolio. Tutto il resto è gas. Pari a circa il 30% della produzione nazionale e circa il 3% del fabbisogno. Siamo una nazione energivora, consumiamo un sacco di gas metano, ne importiamo la quasi totalità e la nostra produzione è piccola cosa rispetto al nostro fabbisogno. Vogliamo rinunciare anche a quella?